di Christa Wolf
con Cecilia Lupoli
regia Carlo Cerciello
scene Andrea Iacopino
costumi Anna Verde
musiche Paolo Coletta
luci Cesare Accetta
consulenza movimenti Dario La Ferla
trucco Vincenzo Cucchiara
acconciatura Team Leo
aiuto regia Aniello Mallardo
foto di scena Guglielmo Verrienti
ass. regia Mariachiara Falcone
produzione Teatro Elicantropo / Elledieffe
dal 2 al 26 febbraio 2023 – napoli, teatro elicantropo
dal 20 aprile al 5 maggio 2024 – napoli, teatro Elicantropo
dal 14 al 26 maggio 2024 – torino, teatro astra (tpe)
La Cassandra della scrittrice tedesca Christa Wolf viene dal passato e dal futuro, testimonia il passato perché in futuro non abbiano a ripetersi gli stessi errori.
Ma forse il futuro è già tra noi, è il nostro presente, e gli stessi errori si stanno già ripetendo.
Cassandra è prigioniera di Agamennone, di Clitemnestra, del passato, della paura, della veggenza, dei ricordi, della verità, del suo ruolo di testimone. I legami con tutto ciò le creano tensione e la legano indissolubilmente al suo destino di morte. Gli occhi non hanno bisogno di guardare per vedere ciò che solo lei vede. Si dirige in un’unica direzione, perché solo una direzione le è concessa: quella della sua morte.
Gli spettatori incuriositi la spiano, come la gente di Micene, ignari del fatto che il loro destino è segnato allo stesso modo.
Le verità di Cassandra preoccupano il potere. Le mura di Micene sono come il muro di Berlino est.
La storia che scorre contemporanea, implacabile, scandisce il conto alla rovescia verso la fine.
In un vigoroso conflitto fra costrizione e pura energia espansiva, legata a lunghe funi elastiche e imprigionata all’interno di un vetro rettangolare proprio come in un peep-show, la principessa troiana si rivela al pubblico.
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«Cassandra», una voce oltre il tempo contro la guerra
– Gianni Manzella, NAPOLI, 13.04.2022
Carlo Cerciello rilegge il testo di Christa Wolf, protagonista Cecilia Lupoli. Una regia che interroga attraverso la performance dell’attrice il voyeurismo dello spettatore di fronte al dolore.
Con questo racconto vado nella morte, comincia a dire la Cassandra di Christa Wolf mentre viene trascinata al macello. La principessa troiana, la veggente figlia di Ecuba e Priamo condotta come schiava a Micene dal vincitore Agamennone, conosce la sorte che l’attende al di là della soglia che ha davanti. Il saperlo le mette paura. E il racconto è uno srotolare a ritroso il filo della propria vita. Dai dieci anni della guerra a quelli della giovinezza, l’orrore per il corpo degli uomini, la volontà di diventare a ogni costo sacerdotessa del dio, il dono della veggenza desiderato ardentemente. Racconto molto amato quando fu pubblicato, all’inizio degli anni ottanta del secolo scorso, nel suo intrecciare liberazione femminile e rifiuto di ogni guerra, giacché ogni guerra può essere solo perduta, suona quasi profetico oggi che lo ritroviamo al teatro Elicantropo, grazie alla bella prova del regista Carlo Cerciello.
L’artefice dello spettacolo e l’attrice che ne è interprete, Cecilia Lupoli, hanno lavorato per sei mesi alla riduzione del testo della scrittrice tedesca a partire dall’autunno scorso. Ammorbidendone i salti temporali, concentrando ciò che sulla pagina può distendersi e qui diventa invece un secco rincorrersi dei pensieri che non hanno più tempo, sono parole in cerca di qualcuno che le tramandi a chi verrà. Di donna in donna. Parole che chiedono di farsi corpo. E certo la risonanza è forte con il momento che si sta vivendo, la guerra in Ucraina, con il delirio bellicista di chi invoca più armi e la chiusura per decreto di ogni opinione dubbiosa. Vidi una notizia farsi verità, a ciò che si è ripetuto spesso alla fine si crede – dice Cassandra. Sembra descrivere la propaganda in cui siamo immersi.
MA IL SENSO del lavoro di Cerciello trascende questa occasione. Non solo perché il grido di rivolta di Christa Wolf ha un significato molto più ampio. Prima dell’ultima ci sono state altre guerre, ci dice. Altre spedizioni navali, altre imprese, interessi economici, tradimenti; e poi congiure di palazzo, indicibili segreti di stato, quando un dubbio basta per scoprirsi fra i sospettati di favoreggiamento al nemico. C’è il riemergere del sentimento del tragico. Fare la prova del dolore, pungere la memoria per verificare se è insensibile.
Il regista ha calato la protagonista in una sorta di stretto sentiero che si stende diritto fra due pareti, al di là delle quali stanno due file di spettatori, affacciati a una lunga finestra vetrata. Un percorso che si estende fra due poli temporali, il passato che le sta alle spalle e il prossimo futuro che ha di fronte. Verso cui procede a fatica. Le funi elastiche a cui è legata la tirano indietro, e sono corde che la legano alla vita, di cui un poco alla volta si libererà. La struttura scenica richiama deliberatamente quella di un peep show, cioè mette in questione il voyeurismo dello spettatore di fronte al dolore.
Ma più forte, più dolorosa appunto, è la percezione improvvisa che siamo noi spettatori i greci, siamo noi gli uomini e le donne di Micene che dall’alto di una posizione un po’ rialzata spiano le convulsioni della preda di guerra fra il timore della sua fama e l’oltraggio al nemico vinto. Un po’ come avveniva con le Troiane messe in scena da Thierry Salmon sui ruderi di Gibellina, tanti anni fa. Del resto siamo sempre lì, dalle parti di Euripide più che Eschilo, di fronte a una tragedia capace di guardare alla storia con gli occhi dell’altro.
DUNQUE è con un po’ di imbarazzo che guardiamo l’emotiva performance della giovane bravissima attrice. Cui Cerciello ha sottratto ogni tentazione mimetica. Stretta in un body nero, i capelli rossi raccolti in una treccia sulla nuca, sembra una creatura un po’ aliena o un folletto punk, mentre va avanti e indietro nell’ambiente sonoro creato da Paolo Coletta, che alterna momenti romantici al crescendo quasi rockettaro. Racconta sogni tormentosi dai quali ci si sveglia urlando, con in bocca un sapore ripugnante. Racconta l’odio per Achille la bestia, che aveva visto strozzare il fratello Troilo che si messo in salvo davanti al simulacro del dio. Quel dio che le aveva dato il dono della veggenza, e insieme la condanna a non essere creduta. Dirai il vero ma nessuno ti crederà. Il grido inutile, fermate le armi. Una guerra condotta per un fantasma, può essere solo perduta.
© 2023 il manifesto
Corriere del Mezzogiorno
Nascita di un’attrice
Pubblicato il 9 Febbraio 2023 da Enrico Fiore
È arrivato per me il tempo dei bilanci. E naturalmente mi tocca affrontare per primo quello della mia attività di critico teatrale, con una premessa relativa al fatto che io non ho scelto di dedicarmi né al giornalismo né, tantomeno, alla critica teatrale. Il giornalismo e la critica teatrale sono faccende che mi son capitate fra le mani per caso, e ho cercato di occuparmene come meglio ho saputo e potuto. Ma – lo ripeto da sempre, anche se nessuno mi crede – appartengono alla mia vita pubblica, che per me non è quella vera. Quella vera, di cui nessuno sa niente, salvo i frammenti minimi che di tanto in tanto ne ho rivelato, s’è svolta inseguendo il sogno del comunismo dovunque si combattesse per la libertà: in Grecia durante la dittatura dei colonnelli, in Portogallo durante la «Rivoluzione dei Garofani»… E qui di seguito, invece, rievoco in breve le circostanze della vita «falsa» che mi condussero al teatro.
Io fui, nel 1976, uno dei sei giornalisti che vararono la redazione napoletana di «Paese Sera». Il capo, Ennio Simeone, mi affidò la cronaca nera. E dal canto mio, mi guardai bene – quando si pose l’esigenza di trovare un critico teatrale – dal rivelare che in precedenza avevo occasionalmente scritto, per «Il Tempo», anche di teatro: altrimenti, pensai, questi mi scaricano addosso, oltre ai delitti veri compiuti nei vicoli o nelle stanze da letto, pure quelli metaforici o professionali compiuti sui palcoscenici.
Senonché avevo chiesto di potermi occupare, accanto alla cronaca nera, pure di argomenti culturali. E mal me ne incolse. Una bella mattina si presentò in redazione lo scenografo Tony Stefanucci, a proporre che qualche redattore andasse a dare un’occhiata al particolare «Macbeth» che lui stava allestendo alla «Framart», una galleria d’arte di Capodimonte. Detto fatto, subito Simeone, per soddisfare l’aspirazione che gli avevo manifestato, ci mandò me. E apriti cielo. Appena lesse il mio resoconto di quella trasferta alla Framart, esclamò tutto contento: «Ma come, il critico teatrale ce l’avevamo in casa e non lo sapevamo!».
Ecco, cominciò così la mia attività di spettatore teatrale di professione. E la svolgo, quindi, da ben quarantasette anni, non solo a Napoli ma in tutta Italia e di tanto in tanto anche all’estero. È arrivato perciò il momento che, giusto in sede di bilancio, io mi chieda se un simile arco di tempo dedicato al teatro abbia prodotto qualcosa, e che cosa.
Non sono molti, debbo constatarlo, i motivi che m’indurrebbero a non ritenere che abbia speso inutilmente tutti quegli anni. Ma quegli anni mi hanno pure regalato delle storie preziose, piccole e tuttavia tali da ispirarmi qualche consolazione, ugualmente preziosa pur se essa stessa piccola. E una di queste storie voglio adesso raccontare.
Una volta Carlo Cerciello m’invitò a tenere un incontro con i ragazzi che partecipavano al laboratorio permanente dell’Elicantropo. Con loro parlai, fra l’altro, della necessità d’interpretare un testo sulla base non del significato che le sue parole hanno oggi, ma di quello che avevano al tempo in cui il testo in questione fu composto. E al riguardo feci ancora una volta l’esempio del Canto V dell’Inferno dantesco.
Si continua a interpretare il celeberrimo passo «(…) Francesca, i tuoi martìri / a lagrimar mi fanno tristo e pio» come se Dante dicesse: «Francesca, le tue sofferenze provocano in me tanta pietà che ne piango». E invece Dante volle dire esattamente il contrario, e quindi manifestare l’opposto della commozione proverbialmente presunta. Perché il dato di fatto è che il testo teorico di riferimento era per Dante la «Summa theologiae» di Tommaso d’Aquino: e nella «Summa theologiae» di Tommaso d’Aquino i termini «tristitia» e «pietas» indicano, rispettivamente, l’orrore che il cristiano prova di fronte al peccato e il terrore che induce in lui la certezza della punizione divina. Sicché altro che condivisione delle sue pene, di fronte a Francesca Dante prova un sentimento di ripulsa: tanto è vero, d’altronde, che non la mette nemmeno nel Purgatorio, ma, giusto, nell’Inferno, il «luogo» della condanna eterna senza alcuna speranza di redenzione.
Poi passarono altri anni, e ritrovai molti di quei ragazzi come interpreti dello spettacolo «Verso… Moby Dick», diretto dallo stesso Cerciello. Si dividevano parole di vari grandi scrittori e poeti, scrissi che davano una lezione il coraggio e la passione con cui, senza prendere un centesimo, salivano ogni sera sul palcoscenico. E loro, inaspettatamente, mi mandarono a casa, rilegata con cura estrema, una copia del testo, sulla prima pagina della quale comparivano, sotto la dedica «Al maestro Enrico Fiore», le firme di tutti, seguite dalla scritta «Tutti noi le diciamo… Grazie!!!» e dal post scriptum «Maestro, torni presto a trovarci!!! Magari per parlarci della Divina Commedia… la aspettiamo!».
Ebbene, tra quei ragazzi mi aveva colpito particolarmente Cecilia Lupoli, che allora diceva versi di Jacques Brel sul confronto tra le barche «che restano nel porto per paura» e quelle che «vanno in gruppo / ad affrontare il vento forte al di là della paura». E adesso l’ho ritrovata, Cecilia, sempre all’Elicantropo ma stavolta, per la prima volta, in un ruolo da protagonista assoluta, nelle vesti, difficilissime da indossare, della Cassandra vista da Christa Wolf. Cecilia, insomma, è una delle barche che non hanno avuto paura di uscire dal porto e di affrontare il vento forte. E questo, dunque, è il racconto della nascita di un’attrice.
Lo spettacolo, diretto ancora da Cerciello, è tratto, ovviamente, dal romanzo della Wolf, appunto «Cassandra»: che, datato 1983, consta di un monologo di quasi centocinquanta pagine in cui la figlia di Priamo racconta la propria storia alternandosi fra presente e passato. E Cerciello dimostra di aver capito perfettamente qual è la posta in gioco, se nelle note di regia osserva: «Cassandra si ritrae di fronte a una città che al vedere il vero va sostituendo il vedere la finzione. Sotto la cappa del poliziotto Eumelo, Troia diventa una comunità di ciechi, che non vedono per comodo e che intanto sono sorvegliati e puniti».
Infatti, Cassandra è assai vicina a ciò che la Wolf definisce «il punto cruciale», ovvero «alla nascita della nostra cultura, in cui è cominciata quell’alienazione che adesso ci porta vicino all’autodistruzione». E perciò si chiede e richiede: «Perché volli a tutti i costi il dono della veggenza?», constata che «Il tono profetico è finito. Finito, per fortuna» e, a proposito di Mirina, l’amazzone fedele compagna di Pentesilea, dichiara: «Più di ogni altra cosa mi aveva sempre affascinato in lei l’odio per le mie predizioni». Dopo di che conclude: «Prima che moriamo può darsi che muoia il dolore. Se così fosse, questo sarebbe da raccontare, ma a chi? Qui nessuno, se non quelli che moriranno con me, parla la mia lingua».
È il rifiuto delle parole come menzogna, come lo strumento di cui si serve il potere allo scopo, per l’appunto, di far sembrare vero ciò che è soltanto finzione. Lo dice con estrema chiarezza, la Cassandra di Christa Wolf: «Sono stata sempre legata più alle immagini che alle parole. In ultimo ci sarà un’immagine, non una parola».
Dunque, lo straordinario della prova di Cecilia Lupoli sta nell’esaltarsi del suo corpo frenato da tiranti elastici. Non è un ossimoro, perché quei tiranti rappresentano ciò che Cassandra chiama «le corde che ci legano alla vita».
Il racconto finisce qui. Ed è inutile sottolineare che ha preso l’avvio nel segno di Dante. Aveva proprio ragione Vittorio Russo, il mio maestro di scienza dantesca. Non puoi non fare i conti con Dante, ti s’impone sempre e dappertutto. E a me personalmente ha fornito un antidoto infallibile. Quando sento di più il peso della stupidità, dell’ignoranza e della malafede dilaganti, mi ripeto la preghiera di San Bernardo alla Vergine.
Enrico Fiore
(«Corriere del Mezzogiorno», 9/2/2023)
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