Eleganti, annoiati e sexy, due inglesi perfetti sono i napoletani Paolo Coletta e Mercedes Martini. Asciutta e trascinante la scrittura dello scozzese Tim Crouch, tradotta con sapienza da Luca Scarlini e con forza diretta da Carlo Cerciello. Magistrale. Davvero magistrale. [Sergio Lo Gatto - Lettera 22]
-------------------
NapoliTeatroFestivalItalia
ENGLAND
di Tim Crouch
traduzione Luca Scarlini
con Paolo Coletta e Mercedes Martini
costumi Daniela ciancio
regia Carlo Cerciello
produzione NTFI
in collaborazione con Museo MADRE e Gallerie d’Arte contemporanea della città di Napoli
progetto del Napoli Teatro Festival Italia
produzione Napoli Teatro Festival Italia
in collaborazione con MADRE – Museo d’Arte contemporanea Donna REgina e Gallerie d’Arte contemporanea della città di Napoli: Dina Carola, Studio Trisorio, Franco Riccardo Arti Visive, TRIP, Mimmo Scognamiglio Artecontemporanea, Changing Role Move Over Gallery, Galleria PrimoPiano, NOT Gallery, Raucci e Santamaria, Alfonso Artiaco, Associazione Vigna San Martino, Fondazione Morra Greco, Galleria Umberto di Marino, Associazione Culturale Sabu/Largo Baracche, Al Blu di Prussia
Nomination Premio Ubu 2009 – sezione Migliore novità straniera
Prima Nazionale
dal 6 giugno 2008
durata: 60’
England è la traduzione e la messinscena dell’ultima creazione di Tim Crouch, uno dei drammaturghi più interessanti dell’ultima stagione del teatro inglese. Opera concepita esplicitamente per essere rappresentata in gallerie d’arte, è andata in scena alla Fruitmarket Gallery a Edimburgo nell’agosto 2007. A Napoli il testo verrà per la prima volta tradotto dall’inglese e allestito da un artista diverso dal suo autore, il regista Carlo Cerciello.
Due voci, che inizialmente rifiutano uno status più esplicito di personaggio, un uomo e una donna, narrano una storia. Colei che parla ha una grave malattia al cuore ed ha un marito collezionista e mercante d’arte, che si trova a disagio con la propria compagna ormai sempre più incapace, per il peggiorare delle proprie condizioni di salute, di reggere il ritmo di una vita sociale e mondana frenetica. La passione per le opere è connessa qui in ogni movimento del pensiero alla loro dimensione di possibile investimento, con esiti che raggiungono l’ossessione.
Ancora una volta Crouch intreccia questioni esistenziali a domande sull’arte e sul teatro: il rapporto tra attore e spettatore, che altro non è se non una relazione tra esseri umani; la commistione tra arti visive, teatro e performance; il labile confine tra realtà e finzione, tra esibizione e rappresentazione; lo scontro tra due mondi, in cui l’insanabile distanza tra i rispettivi sistemi di valori conduce alla inevitabile tragedia.
Tim Crouch è autore e attore. La sua prima pièce, My Arm (Il mio braccio), ha debuttato a Edimburgo nel 2003 e da allora è in tournée in tutto il mondo. L’adattamento televisivo di My Arm per la BBC ha vinto il Prix Italia come miglior adattamento teatrale nel 2005. Da quando ha iniziato a scrivere, Tim Crouch ha completato una trilogia di messinscene teatrali di Shakespeare per il Festival di Teatro per Ragazzi di Brighton: I, Caliban, I, peaseblossom e I, Banquo. Il National Theatre gli ha commissionato Shopping for shoes, mentre il Plymouth Theatre Royal e il Polka Children’s, Kaspar the Wild, e il Traverse Theatre di Edimburgo, England. An Oak Tree ha debuttato nell’agosto del 2005 e ha vinto il Glasgow Herald Angel Award. Tim Crouch è membro associato della compagnia newyorchese Franklin Stage Company ed è docente associato del National Theatre. I suoi lavori rimandano per molti aspetti a certi esiti della performance art, territorio a cui l’autore torna anche più esplicitamente con lo spettacolo An Oak Tree ispirato a un’opera dell’artista britannico Michael Craig-Martin e presentato alla Tate Modern Gallery.
6, 7 – 10, 11, 12, 13, 14 – 17, 18, 19, 20, 21 – 24, 25, 26, 27, 28 giugno 2008
Napoli, Teatro Festival Italia
18 e 19 ottobre 2008
Lugano, Festival Internazionale del Teatro
26 e 27 ottobre 2008, h 21.00
Bari, Galleria Ninni Esposito – Teatro Kismet
dall’11 al 16 novembre 2008
Milano, Fondazione Pomodoro – Teatro i
6 dicembre 2008
Barletta, Pinacoteca Giuseppe De Nittis – Palazzo della Marra
26, 27 e 28 febbraio 2009
Lecce, Museo Castromediano
Recensioni
Astratto o classico, ma c’è: decolla il festival del teatro
«England» a Napoli: incontro ravvicinato con il pubblico. L’ospitalità è fatta anche di ricevimenti. Funzionali le navette per poter andare da uno spettacolo all’altro.
DAL NOSTRO INVIATO – NAPOLI – Venerdì scorso la pioggia ha cacciato dal Real Albergo dei Poveri le Troiane inaugurali e relativi spettatori, facendo credere – non ai napoletani – in un cattivo auspicio per il primo Teatro Festival Italia. Domenica, invece, tamburi nella notte e applausi per la Medea africana sotto le stelle, stesso spazio, umido (pronto il piano di evacuazione al coperto). Il pubblico fitto, tanti giovani, famiglie con bambini, e stranieri, si è scaldato dentro e fuori al fuoco di Odile Sankara, batik blu criniera corvina, e del coro di donne, un francese facile, quanto raciniano era quello delle poliglotte principesse violentate dai greci. Quando si dice i capricci del Fato, non certo di San Gennaro, ché anzi alla manifestazione artistica, evidentemente laica, nessuno lo invoca. Dieci i debutti nel primo weekend del Festival, ne mancano ancora una trentina, in tutto 200 rappresentazioni. Dalla strategia della maga nera si può passare nella stessa notte a quella giocosa, ma altrettanto decisa, delle bianche abbondanti americane del New Burlesque, al Sannazzaro di via Chiaia. Introduce i numeri, pazzi e nudi, Marisa Laurito, lasciandosi coinvolgere (non sempre) in un guêpière strip. Ci sono performances minimali come Explosion, poetiche come Storm/O; e la strana situazione inventata da Scarpa per L’ inseguitore, un vecchio e un ragazzo che ricordano la coppia di Morte a Venezia, ma con risvolti crudissimi. I contrasti tra i generi e nei linguaggi degli spettacoli in questo Festival sono continui, all’ interno di filoni precisi, come quello improntato, ad esempio, alla dialettica «tragica», inconciliabile tra uomo e donna. Ne è una prova evidente la versione italiana di Carlo Cerciello della cinica England dell’ autore inglese del momento, Tim Crouch, ambientata dentro i saloni bianchi di uno dei Musei più belli del mondo, il Madre. Si fatica all’ inizio a trovare il ritmo, legato ovviamente alla scrittura originale che la lingua italiana non può né deve rincorrere. É anche inutile aggrapparsi alla trama, come in un informale di De Kooning ci sono solo le linee di una storia: lui è un giovane raffinato mercante d’ arte, lei la sua affascinata compagna che si ammala, di cuore; il trapianto avviene sulla pelle di un disgraziato che la moglie sostiene fosse ancora vivo… Tutto sembra astratto, tranne la concreta «inutilità» del pubblico che sta in piedi tra il bianco delle pareti su cui campeggiano tele di Baselitz e sente di non aver nulla da spartire almeno nella prima mezz’ora con quei due. Poi, lo spazio si restringe (anche le Troiane rifugiate al Mercadante hanno guadagnato in primi piani), l’ astrattezza aumenta ma diventa talmente concentrata che, finalmente, la forza della presenza dei due attori nell’incontro ravvicinato col pubblico dà modo a quest’ultimo di ritrovare la sua vocazione di testimone di una storia. E anche gli interpreti – Paolo Coletta, soprattutto, e Mercedes Martini – trovano la velocità, l’ironia, la gestualità made in Italy. Ricchezza di contrasti, si diceva, ma temi precisi nel programma del Festival, coerente con la città che lo ospita, difficile come può esserlo Venezia e in più metropoli, che è stata mobilitata al massimo nell’ organizzazione (navette in punti nodali per trasportare artisti & vari da uno spettacolo all’ altro), ospitalità (ricevimenti pubblici a base di burrate, pastiera e Aglianico), entusiasmo orgoglioso che – ha detto un autoctono – «non può non contagiare i mariuoli appostati accanto ad alberghi e teatri per i nuovi turisti della cultura». Succede dovunque, no? Ci sono poi tocchi di grande raffinatezza culturale: ad esempio nella Cantata per lo sposalizio del principe di Sansevero, stasera alla cappella, Mariano Balduin ha montato il barocco e Jim Morrison.
[Claudia Provvedini – CORRIERE DELLA SERA]
(…) Incuriosisce England di Tim Crouch, diretto da Carlo Cerciello e destinato a girare per le gallerie d’ arte cittadine dove la protagonista Mercedes Martini, passeggiando tra i quadri e il pubblico con Paolo Coletta, confonde i propri problemi di salute con gli interessi di collezionista, nonché la pittura col teatro, in un pastiche che gira gustosamente su se stesso.
[Franco Quadri – LA REPUBBLICA, 9.6.2008]
«ENGLAND» AL MADRE
Quei due atti da guardare come quadri
Entra una sorta di appariscente dark lady con labbra viola, tacchi altissimi, occhiali neri e gran cappello sformato, di vaga foggia elisabettiana e anch’esso nero. Guarda fisso gli spettatori che, già seduti sulle panche, a loro volta la fissano e infine va a sedersi pure lei, spettatrice che guarda tra spettatori che guardano. È 1’attacco dell’allestimento di «England», il testo dell’autore e regista inglese Tim Crouch presentato al Madre (e adesso in giro per varie gallerie d’arte cittadine) nell”ambito della sezione «I progetti del Napoli Teatro Festival Italia». E basterebbe da solo a dimostrare con quanto acume e quanta precisione si sia mosso il regista Carlo Cerciello: giacché, per inquadrare (e mai termine fu più appropriato) quel testo, qui nell’ottima traduzione di Luca Scarlini, occorre necessariamente far riferimento alla pittura, e cioé, per 1’appunto, all’atto del guardare. Infatti, i due atti di Crouch risultano destinati – giusto il sottotitolo «Un testo per gallerie d’arte» – proprio ad essere «appesi» a una parete come in una «mostra». Ne consegue che tutto, nella circostanza, viene ricondotto alla percezione visiva: la battuta-chiave, regolare come un metronomo, è nel primo atto «guardate»; e nel secondo, quando la protagonista si reca in India per incontrare la vedova dell’uomo del quale le è stato trapiantato il cuore, diventa, a proposito della fotografia del morto: «La metto in cornice… così! La appendo al muro! Al mio muro!». È proprio quel che dicevo. E dunque il testo dell’autore inglese finisce a rivelarsi un’autentica e irriducibile tautologia: non parla di quadri, è esso stesso un quadro. E due decisive esperienze della storia delle arti visive entrano allora in gioco. Mi riferisco agli «objets trouvés» dei dadaisti da un lato e al puntinismo dall’altro: il testo, qui, si riduce per 1’appunto a un oggetto di scena fra i tanti, non pretende di lanciare messaggi ma stabilisce una sintonia totale con il nostro corpo (il quadro, ovvero la fotografia del morto, s’identifica con la vita garantita, anzi «reinventata», dal trapianto del suo cuore); mentre (non a caso si cita Seurat) quelle battute brevissime – che si susseguono senza narrare, senza domandare, senza rispondere – sembrano proprio punti di colore su fondo bianco suggeriti al neoimpressionismo – guarda guarda! – dai trattati di ottica del tempo. Ebbene, tutto questo Cerciello non poteva sottolinearlo meglio: faccio solo 1’esempio dei due attori che pronunciavano la battuta «guardate» mentre, manco a dirlo, voltavano le spalle al pubblico guardando i quadri della splendida mostra di Baselitz in corso al Madre. Ed eccellenti (di più, giusti) sono Paolo Coletta e Mercedes Martini. Davvero un bel colpo d’ala, per il Festival.
[Enrico Fiore – IL MATTINO, 10.6.2008]
Metti un inglese al Madre
Intelligente e fortunata – per via del pubblico attento e fedele – la rassegna “Sguardi contemporanei” al Teatro di Genova sulla drammaturgia europea è nutrita con testi francesi, tedeschi, inglesi, italiani, svedesi. Niente anoressiche mises en espace, ma veri spettacoli compiuti con icastici elementi scenici, regia e interpretazioni che in qualche caso possono serenamente competere con gli spettacoli più rifiniti e più costosi. Prendiamo l’ultimo della serie, “Mojo – Atlantìc club” di Jez Butterwood, autore prodigio nel 1995, ora in dotazione per lo più al cinema, testo messo a dimora nella mala da night di Soho degli anni ’50, poi tradotto in film con tenebrosa apparizione carneo di Harold Pinter, a cui Butterwood è comunque debitore. Ero alla prima londinese del ’95 al Royal Court e posso dunque testimoniare che sia il regista Massimo Mesciulam che gli interpreti bravissimi, energetici e bene assortiti fisicamente, non devono soffrire di alcun complesso dì inferiorità. Unico appunto sulla traduzione italiana che mi è parsa leggermente più buonista dell’originale: all’epoca avevo dovuto chiedere una lezione supplementare al teacher della tuli immersion, perché mi mettesse in grado di interpretare la violenza verbale e la trivialità inventiva degli autori. Involucro teatrale il bei museo Madre di Napoli, scenografia i quadri di Baselitz con i corpi all’ingiù, “England” dell’inglese Tim Crouch – autore che mette in discussione le regole della rappresentazione e spesso destina i suoi testi a spazi “altri”, una galleria d’arte per esempio – racconta degli scambi e dei cortocircuiti tra il mondo dell’arte (lui è un mercante di quadri) e i bisogni reali del corpo umano (lei è malata di cuore e necessita di trapianto). Diretti da Carlo Cerciello per il Teatro festival di Napoli, Mercedes Martini e Paolo Coletta esibiscono al pubblico in incontri ravvicinati i loro colloqui dai molti interrogativi e dagli esiti per nulla prevedibili. “England” al Madre di Napoli.
[Rita Cirio – L’ESPRESSO, 27.6.2008]
Più inquietante, più asprigno il gelido England di Tim Crouch, che Carlo Cerciello ha allestito – su indicazione dell’autore – in varie gallerie d’arte. I quadri, la distanza tra le tensioni della vita e le opere creative, le incerte relazioni tra il valore di mercato e i valori del sentimento sono infatti al centro della pièce: la protagonista, compagna di un ricco gallerista, dopo aver subito un trapianto di cuore va in India a conoscere la famiglia del donatore: l’impatto tra i due mondi è agghiacciante, i tentativi della donna di rendersi accattivante sono viziati da imbarazzanti pregiudizi. Al culmine dello stridente contrasto, il gallerista offre in dono alla vedova un quadro prezioso, lei risponde con l’accusa che il marito sia stato ucciso per rivenderne l’organo. E tutto ciò awiene appunto fra le tele che ci osservano indifferenti dalle pareti.
[Renato Palazzi – Delteatro.it]
SIPARIO APERTO IN GALLERIA D’ARTE
La Repubblica, 12 giugno 2008
Livelli di pensieri e comportamenti, storie intime e pubbliche, dolorose memorie, sogni malandati, illusioni e disperate memorie come estremi momenti di comunicazione che s’ intersecano o scorrono su piani paralleli. Nello spazio limpido della galleria d’ arte gli attori s’ incontrano per la rappresentazione che s’ insinua abilmente tra le opere esposte, cercando interazioni possibili, complicità e sussulti. Il pubblico intorno segue e si lascia sedurre dal gioco che chiede la loro attenzione per due sementi di una ventina di minuti ciascuno. “England”, recente creazione di Tim Crouch, uno dei drammaturghi più interessanti dell’ ultima stagione del teatro inglese, è in scena nella traduzione Luca Scarlini, per la regia di Carlo Cerciello, con protagonisti Paolo Coletta e Mercedes Martini. Un’ opera concepita esplicitamente per essere rappresentata in gallerie d’ arte, andata in scena alla Fruitmarket Gallery a Edimburgo nell’ agosto 2007, e diventata ora un progetto di punta del Napoli Teatro Festival Italia, pensato e calibrato per vagare tra gli spazi dell’ arte della città, realizzato in collaborazione con Madre-Museo d’ Arte contemporanea Donna Regina dove ha avuto la sua “prima nazionale”. E poi destinato ad andare in giro per gallerie. Visto da Dina Carola Arte Contemporanea, che ha ospitato una tappa di questo viaggio affascinante. Alle pareti le “metope” di Roberto Pietrosanti, levigati enigmi di forma e colore segnati da linee profonde e inquietanti, gli sguardi degli attori cercano appigli per renderle parte del loro parlare, del duello sottile che separa i loro giovani corpi, il ragionare convulso, il racconto di storie di malattia ed amore. Un uomo e una donna gravemente malata, col cuore che cede alla morte e un marito che colleziona e vende opere d’ arte e non sa come fare a vivere quelle giornate per lui senza più senso. Ossessione d’ incontri e di scontri, di dire senza ascoltare, di attese che sembrano troppo lunghe. E poi altro incontro più crudele in silenzi incompresi e offerte che diventano stupide e vane. Il percorso si snoda come architettura sdrucciolevole, pericoloso andare verso incogniti destini. Bravi, intensi, inquieti, Paolo Coletta e Mercedes Martini, che Carlo Cerciello orchestra e guida sapiente in complessi equilibri, sono l’ uomo e la donna che si dilaniano il cuore e non sanno parlarsi. E la vita s’ oppone forse all’ arte che vive oltre il tempo e lo spettatore è chiamato a essere parte del tutto. Cercando di essere se stesso eppure inconsapevole protagonista di un gioco a cui non potrà sottrarsi fino al termine del percorso ossessivo. (Alle 19, oggi da Franco Riccardo Arti Visive, via Chiatamone 63, domani da Alfonso Artiaco in piazza dei Martiri 58, sabato 14 da Mimmo Scognamiglio Artecontemporanea, via Mariano D’ Ayala 6, e ancora dal 17 al 28 in altre gallerie che il programma segnala. Info www. teatrofestivalitalia.
[Giulio Baffi – LA REPUBBLICA NAPOLI]
M.M.Giorgetti su England (www.sipario.it/recensioneengland.htm)
“England” è una breve pièce teatrale, il cui autore è l’inglese Tim Crouch. Viene proposta in maniera itinerante in alcune gallerie d’arte di Napoli, una proposta interessante, anche se non nuova, infatti, l’idea di portare momenti di teatro in luoghi alternativi, come musei, librerie, gallerie, palestre, dancing, risale a tempi lontani, ma ciò non vuol dire che non sia utile. E nell’ambito del Festival Teatro Italia di Napoli, però, prende una valenza più importante perché sottolinea quella linea progettuale di far “vivere” spazi nuovi come siti archeologici eccetera.
Quindi la piacevolezza di questa proposta sta nel fatto che il testo di Crouch, interpretato da due attori (Paolo Coletta e Mercedes Martini) e una figurante (Giusy Crescendo) con compiti di interventi fonici assegnati ad un piccolo registratore, ci mette a contatto in modo “vivo” con gli interpreti che agiscono in piena luce, a pochi centimetri dai nasi del pubblico e, di volta in volta, interagiscono anche con i quadri esposti. La storia che viene snocciolata, passando da una saletta all’altra, racconta, con alternanza anche dei ruoli, di una donna che subisce un trapianto di cuore che ristabilisce il complesso rapporto con il marito, mercante d’arte.
Quello che abbiamo apprezzato nella essenziale regia di Carlo Cerciello è che ha conferito agli interpreti moduli e ritmi recitativi ben sostenuti, suggestivi, aggressivi, diretti ad un grumo di presenti, non più di venti, che timidamente si dispongono alle pareti e si lasciano accarezzare dalla recitazione espressiva di Paolo Coletta e da quella grintosa di Mercedes Martini; entrambi dimostrano la sicurezza e la consapevolezza di quanto sia importante stare “dentro” alla parte, “dentro” al personaggio, e non distrarsi mai. Il che non è facile quando ti senti il fiato e gli sguardi addosso del pubblico.
Mario Mattia Giorgetti [www.sipario.it, 20 giugno 2008]
Un teatro per gallerie d’arte. England di Tim Crouch
di Susanna Battisti 19 giu 2008
A turno e per un solo giorno ciascuna, le gallerie d’arte contemporanea di Napoli ospitano il metamorfico England che Tim Crouch ha messo in scena lo scorso anno alla Fruitmarket Gallery di Edimburgo nell’ambito del Fringe Festival. Il pregevole allestimento italiano è il fortunato risultato dello sforzo congiunto del regista Carlo Cerciello, del traduttore Luca Scarlini e di due giovani attori di notevole talento, Paolo Coletta e Mercedes Martini. Un evento così rischioso dà la misura del respiro europeo del Napoli Teatro Festival Italia a cui si deve la produzione di questo spettacolo a dir poco destabilizzante. Tutti i cardini della semiotica teatrale vengono infatti ignorati o ribaltati in questa performance basata come è sul concetto del dislocamento e che tuttavia restituisce al teatro la sua specifica e spesso trascurata funzione di rito collettivo, capace di trasmettere violente emozioni a dispetto di un formalismo estremo.
Il testo, pensato per un luogo non adibito al teatro, è in primo luogo flessibile in quanto, facendo esplicite allusioni alle opere esposte nelle diverse gallerie ospitanti, codifica al suo interno la necessità di variazioni testuali. Si tratta del monologo di una giovane donna che , grazie al denaro del suo fidanzato impegnato nel commercio internazionale di opere d’arte, si sottopone ad un trapianto di cuore, assicurandosi così altri anni da vivere a scapito, però, di un donatore “forzato” di cultura islamica. Ma la pièce non è soltanto la storia di un trapianto di organi. Il trapianto, se così si può dire, informa infatti l’intera impalcatura formale della performance, dove una forma d’arte trasloca in un luogo ad essa non deputato, dove un monologo si scinde nella voce e nel corpo di due attori spezzando la consueta identificazione tra attore e personaggio, e dove , infine, una cultura è trapiantata in un’altra.
Nella prima parte della performance gli spettatori attendono all’in piedi l’arrivo degli attori, fin quando i due performer entrano e cominciano a turno a descrivere la galleria come fossero guide: “Benvenuti alla galleria…..”, “Questa mostra è di un artista che si chiama….”, “per favore non toccate niente”. L’uso continuo dell’esortazione “guardate” rivolta al pubblico ribadisce, tra le altre cose, il significato etimologico della parola teatro (dal greco théatron / théatomai, teatro/ guardo) . Ma se l’essenza del teatro può ridursi al rapporto tra chi guarda e chi è guardato, in questo caso il guardare coincide quasi del tutto con l’immaginare. Dopo aver parlato a sommi capi delle opere esposte , i due invitano a “guardare” i luoghi della vita della giovane donna:
Eccomi in un ospedale vicino a Cambridge. Mi ci ha portato il mio ragazzo
Questo è in campagna.
Il mio ragazzo urla.
Siamo in un parcheggio.
Io tremo
Guardate.
La narrativa è spezzata in brevissimi enunciati che ricostruiscono un dramma personale nel pieno rispetto della linearità temporale e offrendo indizi del complesso rapporto della coppia. Tutto fa supporre che la donna si sia ammalata a causa delle incomprensioni tra lei, vitale e appassionata, e il suo uomo che valuta un’opera d’arte in base alle sue quotazioni sul mercato e che, soprattutto, vorrebbe immobilizzare la vita come fosse un quadro ben incorniciato. Molto si cela tra le righe e sta all’abilità dell’attore far emergere la drammaticità del non detto. La mobilità degli sguardo , la foga costantemente trattenuta della Martini e di Coletta creano un crescendo irresistibile di tensione che raggiunge il suo climax nella seconda parte della performance, agita in una sala adiacente e occupata al centro da poche file di sedie per il pubblico.
La protagonista con il cuore nuovo è nella stanza di un hotel in India dove si è spinta per conoscere e omaggiare la vedova del donatore. Uno dei due performer agisce da interprete e i ruoli si invertono a turno . Ciononostante il momento teatrale è di fortissima intensità. Lo sguardo di chi recita sceglie tra il pubblico un interlocutore muto, costringendolo ad sentirsi nei panni della vedova. Le parole delle due donne o vengono tradotte parzialmente o travisate, a riprova dell’incomunicabilità dei valori e, soprattutto, a testimonianza degli inganni di cui la nostra cultura mercificata si nutre e di quelli che infligge ai più deboli. Le voci si contrappongono e si sovrappongono in un tour de force emotivo per gli spettatori che sono chiamati in causa ma inevitabilmente costretti al silenzio. La donna inglese vuole offrire una costosa opera d’arte alla vedova che preferisce invece sentire il battito del cuore del marito direttamente dal petto della straniera.
Nulla è scontato o già sentito in questa esplosiva pièce. Drammaturgo sperimentale e a detta di molti concettuale, Crouch dà corpo al dolore e al conflitto senza cedere mai al sentimento, denuncia pesantemente senza tuttavia giudicare. Nonostante le inevitabili e per altro previste migrazioni di sensibilità, questo allestimento italiano non tradisce gli intenti dell’originale, lasciando lo spettatore sconvolto e appagato allo stesso tempo.
Susanna Battisti [Foglidarte.com]
Non sarebbe forse possibile raccontare una struttura così complessa. Una rete in cui rimangono incastrati rapporti, sogni, desideri, dolori e delusioni. Non sarebbe giusto rendere lineare questo flusso continuo.
di Sergio Lo Gatto
PRIMEPAROLE. L’arte è universale. Guardate. Sono un riflesso di tutto il mondo in viaggio per mille specchi. Guardate. Da qui si vede tutto. E io dimentico di ogni punteggiatura. Basta punto. Non c’è spazio per l’ambiguità. Non è arte. Questo è come appariamo.
Queste le righe che questa penna, come a dire questo cuore, stillava, mentre “guardavamo”, appunto, “England” di Tim Crouch alla Changing Role Gallery. Il misterioso ingresso di una donna con cappello e occhiali scuri ci suggerisce che in quel luogo piccolo e caldo qualcosa di grande sta per accadere. Poi, come sangue che invade in silenzio piccola ferita, ecco sgorgare prima lei, poi lui.
Lei alle prese con il racconto di un amore totale, lui dal fare sufficiente ed ermetico, tutt’uno con le opere d’arte che per mestiere valuta e per tasche d’altri acquista. Immersi, noi con loro, nella considerazione del luogo, proprio quella Changing Role Gallery di Napoli che s’immagina invece essere a Londra – “da qui si vede la Tate Modern” -, trasformata in museo della solitudine di coppia. E tale resterà, che loro parlino o semplicemente guardino, noi saremo con loro ovunque vorranno portarci o farci guardare – “guardate!” -, ovunque.
Eleganti, annoiati e sexy, due inglesi perfetti sono i napoletani Paolo Coletta e Mercedes Martini. Asciutta e trascinante la scrittura dello scozzese Tim Crouch, tradotta con sapienza da Luca Scarlini e con forza diretta da Carlo Cerciello che, ci dice Coletta, ha voluto togliere ogni frivolezza alla recitazione dei due.
Arte dell’apparenza, sangue vivo della sostanza, soprattutto se dal difficile rapporto tra i protagonisti si cade sulla falce della morte, si parla di cuori trapiantati, si amano parole come cura, malattia, espiazione, dolore. È in ogni angolo, “England”, un trapianto perfettamente speculare, dal concetto di compravendita d’opere fino al colloquio – spinto avanti da un’efficacissimo dialogo con interprete – con la moglie del morto che ha donato il cuore a lei. Si parla di lei e di lui, nomi non si concedono volentieri, nel testo tutto appare come un flusso continuo interrotto da spazi. Ci si confonde spesso e volentieri su quale sia il momento narrato, quale lo spazio, ma mai su quale sia il senso, cuore che pulsa di inesorabilità, nello spazio angusto e caldo in cui, in fin dei conti, nulla si risolve. Magistrale. Davvero magistrale.
Sergio Lo Gatto [Lettera 22]
ENGLAND
Due persone. Un uomo e una donna. In una galleria d’arte che potrebbe essere qualunque galleria d’arte. Comunicazione frammentata. Frammenti di informazioni. Capiamo che la donna è malata di cuore. Capiamo che il suo “ragazzo” è un mercante d’arte. La bellezza dell’arte, dei quadri. La spaventosa morte. La perfezione. L’imperfezione. Uno spettacolo che ruota intorno ai temi dell’identità, della cultura, dei viaggi, della comunicazione.
Spettatori e attori si mescolano in uno spazio che ha superato le barriere di palco e platea. Due gli ambienti, all’interno della stessa galleria, in cui si svolgono i due atti della pièce. In mezzo, uno spazio comune nel quale gli spettatori vengono portati altrove, in un luogo in cui convivono intimo e universale, dove grandi concetti etici e morali sventolano alle spalle delle personali storie dei due personaggi.
L’ultimo lavoro di Tim Crouch, nel riadattamento italiano di Carlo Cerciello, è un susseguirsi di frasi, secche, imperative, lasciate fluttuare nell’aria, due voci che si alternano e, di quando in quando, parlano all’unisono. Niente ci è chiaramente spiegato, allo spettatore il ruolo di mettere insieme i pezzi del puzzle.
Due perfetti inglesi, molto eleganti, molto sobri, con un self control tutto “british”, alle prese con la tragedia di una malattia, vedono crollare il loro mondo di bellezza, di arte. La donna è malata. Il potere dei soldi le riesce a procurare un nuovo cuore e le regala ancora alcuni anni di vita. Dall’altra parte del mondo una donna ha perso il giovane marito. La donna e il suo nuovo cuore viaggiano per ringraziare, per portare un dono alla vedova del donatore, per il nuovo cuore che ora le batte dentro procurandole un certo senso di estraneità. In compenso riceve indietro una nuova storia su come il cuore è stato ottenuto, non donato. Quel cuore, in cui la vedova riesce ancora a sentire il marito. Una pièce adatta ad essere trapiantata in molteplici luoghi, pur rimanendo intatta nella propria intensità.
Eleonora Tedeschi [Lettera 22]
Un cuore senza capanna
di Tommaso Chimenti Bencini
NAPOLI – Il cerchio si chiude a ventaglio, partendo dal taglio delle foto alle pareti, verticale che indica la ferita, lo squarcio verso il sesso, nel profondo, nella pancia, nel ventre che rilascia la vita, la stessa protuberanza cavica e cavernosa malata, fino alla sostituzione, allo spostare l’essenza, il respiro, il cammino, il donarsi, l’amare. “Guardate” dicono i due amanti in questa loro casa-museo di morte apparente. “Guardate” ed indicano le pareti compresse della Galleria Primo Piano, spazio perfettamente sovrapponibile al testo di Tim Crouch, per la messinscena di Carlo Cerciello. Perifrasi chiave, nella traduzione graffiata di Luca Scarlini: “Se non fosse stato per te sarei morto”. Dedizione e supplica, mistero della fede. La donna è malata, e di lui succube, l’uomo è un mercante d’arte, particolare da non sottovalutare nell’esplicazione, con rimandi, a ritroso, a gambero, della vicenda, trama infittita, di lanci e ritorni, a zig zag dentro il testo, alla scoperta dello stesso. Scambiare, prendere, vendere, ricevere, contrattare. La malattia è l’opera d’arte del nostro tempo, la perfezione di corpi fallaci e fallimentari, di macchine irrisolte, piene di difetti congeniti, perché la vita è l’unica patologia che si cura con la morte, panacea di tutti i mali stagnanti. Ed in questo continuo scambio di ruoli tra i due, superba Mercedes Martini, cinico e ficcante Paolo Coletta, nel contingente spostamento spazio-temporale tra la galleria e Londra, con pareti e vetrate identiche a stabilire un contatto percettivo e visuale, nell’esigenza della trasformazione contenitiva dei luoghi, “England” diviene processo, e alle intenzioni di una intera società, e al bisogno, estremo, intenso, eterno, di avere idoli e santi terreni, totem da dover poter pregare a mani giunte, simulacri non intercambiabili come organi, altari ai quali votarsi, anima e corpo, per carpirne la pace interiore, visto che quella della carne è mangiata giorno per giorno, ora per ora, dalla vita che scorrendo si tramuta, e trasmigra le proprie cellule grigie in anfratti segretissimi di respiri da ventun grammi. Il face to face, contemplativo e senza contatto, ma per questo non senza sangue, mentre in audio la terza donna in nero cerulea e mortuaria con il suo mini transistor spiana la strada a ticchettii ospedalieri da screen con diagrammi verdi e bip ritmici, tra la vita che scorre nel corpo risanato e chi è rimasto, orfano e sottratto, del caro strappato per concedere il suo chilo di manzo pulsante di aorte e ventricoli, è un concentrato di speranze negate, di perfezioni rubate, di tumori tolti e regalati sotto forma di quadri in una riconciliazione tra vivi impossibile da sostenere anche solo con lo sguardo. Perché se l’opera d’arte è la malattia, che genera e riproduce vita, la salvezza, effimera e temporanea, chirurgica, ha il sapore del capolavoro. Fino alla prossima pennellata di bisturi.
Tommaso Chimenti Bencini [Lettera 22]
L’UNITÀ, 1 luglio 2008
NAPOLITEATROFEST Folgorante il testo di Tim Crouch per la regia di Carlo Cerciello
«England» senza cuore se lo compra dagli indiani per il trapianto
di Rossella Battisti
- inviata a Napoli
Il lusinghiero risultato di frequenze del Festival Teatro Italia non può stupire chi conosce Napoli e sa del suo amore per il teatro e del suo fermento di artisti. Ne è stata riprova una delle proposte più interessanti del Festival, England di Tim Crouch per la regia di Carlo Cerciello, pièce itinerante per Ie gallerie d’arte della città. L’idea di allestirla in questi spazi è insita nel testo stesso di Crouch, che parla di una coppia contemporanea, lui collezionista e commerciante d’arte e lei, sua compagna, che si scopre malata di cuore. England si modula così allo spazio della rappresentazione, – la galleria d’arte, appunto – si conforma sottilmente alle opere che vi sono esposte e ne riflette lo spirito, in uno scambio tra realtà e rappresentazione, uno dei tanti interscambi proposti dall’autore inglese. Crouch è stato gia «avvistato» a suo tempo dall’Accademia degli Artefatti che ne ha intuito Ie speciali corde di sensibilità al contemporaneo e allo sperimentale con spettacoli come My Arm o An Oak Tree. Le sue riflessioni sui rapporti fra attore e personaggio e fra attore e spettatore, le invisibili allocuzioni nei suoi testi che ti richiamano all’interno di ciò che si rappresenta, il gioco delle parti come in England, testo che ruota sul tema del trapianto ed è statopensato per una pièce destinata a debuttare in Scozia (burlone di un Crouch…). Ma quel che centra davvero il bersaglio e come l’autore, splendidamente tradotto da Luca Scarlini, riesca a sintetizzare in una trama scorribile e minimale tutti i nodi della nostra società contemporanea, dal rapporto di coppia alle relazioni economico-commerciali, dalla crisi insomma del vecchio Occidente che si è venduto l’anima (anche quella estetica) e con il medesimo criterio di mercato tratta con altre culture e altre umanità. Nel privato, la storia di lui e lei, il riflesso del generale collasso dell”Occidente: quando lei si scopre malata, lui è come contrariato nello sconvolgimento delle loro vite, per poi procedere a risolvere il «problema» nell’unico modo (commerciale) che gli sembra praticabile. Un trapianto di cuore, organo prelevato a un indiano rimasto ferito in un incidente e per motivi ambigui trasportato nell’ospedale di lei, dove «muore» clinicamente. Tutto questo lo veniamo a sapere per gradi, nella conversazione a grandi quadri, un pò una versione odierna di cantastorie o di fumetti, dove i due mischiano frammenti di conversazione a didascalie (tipo: vedi sono in una camera d’ospedale) alle rivelazioni finali fatte attraverso un traduttore nell’incontro fra la donna operata e la vedova dell’indiano. Cerciello orchestra la partitura a due (Paolo Coletta e Mercedes Martini, bravissimi) in modo scarno, incisivo. Di un minimalismo che arriva dritto al cuore e, per riverbero di sensi, offusca il tanto favoleggiato minimalismo del norvegese Jon Fosse. Si lascia la galleria, in questo caso, lo Studio Trisorio e le opere di Pep Llambìas, inquieti e meditabondi.
[Rossella Battisti – L’UNITÀ]
arteatro_festival Teatro Festival Italia Napoli, sedi varie
45mila spettatori: questo il lusinghiero bilancio del primo Teatro Festival Italia. Ventiquattro giorni di spettacoli, incontri e performance . Che più d’una volta hanno incrociato l’arte contemporanea…
Cala il sipario, è il caso di dirlo, sul Teatro Festival Italia, rassegna nazionale che Napoli è riuscita a strappare (almeno fino al 2010) all’antagonista Genova. Evento che più d’una volta ha incrociato l’arte, non solo con l’esplosiva installazione di Loredana Longo all’Albergo dei Poveri, ma in particolare grazie a due prime nazionali, entrambe “toste”, entrambe caratterizzate da una vena disturbante, entrambe basate su una fisicità intensa, seppur diversamente agita.
Scritto da Tim Crouch e diretto da Carlo Cerciello, England è stato indiscutibilmente uno dei successi del cartellone: partito dal museo Madre, ha inanellato quattordici rappresentazioni tra gallerie e altri cittadini luoghi del contemporaneo, premiate quasi sempre dal tutto esaurito. Prevedibile, visto il numero limitato di posti a disposizione, ma meritatissimo.
Climax emotivo e due attori straordinariamente affiatati e generosi come Mercedes Martini e Paolo Coletta sono tra i punti di forza di un testo coinvolgente, nel quale l’arte entra come professione d’élite e hobby di tendenza per problematici giovani upper class, lucroso investimento e moneta di scambio anche di fronte alla merce più preziosa: la vita. E non è detto che chi viva d’arte viva d’amore, e che chi ha appena ottenuto un cuore nuovo di zecca ce l’abbia davvero, tanto è il cinismo di questa pièce incardinata sul trapianto, sia come trasloco in una location sempre diversa, sia come esito di un plot tramato di battute non sempre consequenziali, affastellate, più che innestate, in un ritmo convulso, a tratti irritante, e dagli sviluppi imprevedibili.
Il fatto è un dubbio trapianto di cuore, che allarga la visuale dai temi della malattia e dell’incomunicabilità di coppia a una dimensione sociale e politica. Il punto debole, semmai, è consistito nell’oggettiva impossibilità di realizzare una contestualizzazione sempre convincente, risolta spesso in una blanda e disorganica citazione del comunicato stampa.
E se England ruota intorno a una sapiente struttura dialogica e narrativa, gli altrettanti sessanta minuti di Another Sleepy Dusty Delta Day si reggono esclusivamente sulle spalle, sulle gambe, sulle braccia, sul volto e sull’ugola della performer croata Ivana Jozic che, aiutata da un’asciutta e poderosa fisicità, obbedisce perfettamente al regista e scenografo Jan Fabre. Il quale concepisce questo atto unico (replicato per tre sere al Teatro Nuovo) come un congegno meccanico dalla virile coreografia che, abolita ogni grazia tersicorea, fa dell’instancabile protagonista un rude ingranaggio della ripetitiva macchina scenica dove, tra luccicanti mucchi di carbone, corrono senza sosta modellini di treni e oscillano gabbie di uccellini.
Una torbida atmosfera da deep America in cui domina la nota del giallo, sia nell’allestimento che concettualmente, poiché l’intreccio, anche qui dipanato progressivamente (e tuttavia mai completamente sciolto), si fonda su un suicidio per amore, annunciato in una spiegazzata lettera cilestrina e compianto nell’Ode to Billy Joe. Leggendaria canzone di Bobbie Gentry, punto di partenza e leitmotiv di una messinscena ossessiva, diretta, brusca, eppure poco comunicativa, che “cade” su alcune provocazioni gratuite (come la simulata minzione con bottiglia di birra nelle mutande) e impone non poche difficoltà di fruizione al pubblico, sbattuto di fronte al volto sporco e senza innocenza del binomio eros e thanatos.
[Anita Pepe – EXIBART]
England, il teatro si fonde con l’arte
di Alessandra Cardone
Si avvia alla conclusione il ciclo di England nelle gallerie d’arte napoletane. Una concezione teatrale decisamente nuova, quella proposta da England di Tim Crouch, adattato in italiano da Luca Scarlini. La rappresentazione classica del teatro è assolutamente messa in discussione dal taglio behaviouristico che l’autore ha voluto imporre, tanto che si potrebbe parlare di “non-teatro”. Infatti la pièce è concepita per essere rappresentata in una galleria d’arte e, in occasione del NTFI, le gallerie sono state ogni volta
diverse a cominciare dal MADRE fino al museo di arte contemporanea di Umberto Di Marino, passando per il Trip di via Martucci, la gallera Raucci/Santa Maria e molte altre. Sì, perché l’oggetto centrale del testo è proprio il concetto di arte, metafora del trapianto in quanto sostituzione dei contenuti e, proprio con le opere d’arte (esposte nelle gallerie), gli attori interagiscono per ricreare la rappresentazione. Nella galleria Trip fanno parlare Anna Ferrara e la sua mostra fotografica Marie. L’attesa, dove una donna ha smesso di attendere il momento che aveva sempre sognato e adesso ha la possibilità di viverlo. La fotografia diventa l’espressione adatta per “comunicare il mondo autentico delle figure umane, incoraggiando lo spettatore a tornare in quella specie di mondo poetico perduto” come afferma la stessa autrice. La storia di England, narrata dai due attori, Paolo Coletta e Mercedes Martini, si articola per mezzo della voce e dei movimenti dei due attori attorno agli spettatori: la scenografia è fatta delle fotografie di Marie e nient’altro, lo spazio è riservato solo all’immaginazione, che si fa viva man mano che i due attori parlano, ridono, piangono, gridano, si accasciano a terra, girano, guardano lo spettatore negli occhi, si siedono, escono, entrano.
Tutto lo scenario ruota intorno a loro, si forma grazie a loro, anche negli scambi dei personaggi con cui giocano i due attori: lui, un mercante d’arte, lei, sua compagna che scopre di avere una malattia al cuore. Un rapporto che va in crisi, un dolore, una sofferenza, un paura manifestati dallo scambio di ruoli, come in un trapianto (quello che la donna subirà per salvarsi alla fine), per cui lui diventa lei, lei diventa lui, poi lui diventa il dottore, poi la donna che ha donato il cuore a lei, lei diventa ancora lui… Una storia tragica e dolorosa dove l’arte è l’unico escamotage per uscirne, l’unico luogo in cui rinchiudere e abbandonare la sofferenza.
[Alessandra Cardone – MEDINAPOLI]
26 giugno 2008
Il cuore non ha prezzo per l’ultimo Tim Crouch
CORRIERE DELLA SERA MILANO
Una galleria d’arte, la Fondazione Arnaldo Pomodoro, ospita l’ultima pièce di Tim Crouch, «England», diretta da Carlo Cerciello per il Napoli Teatro Festival Italia e uno degli appuntamenti di prestigio
del Teatro i (da domani al 16/11, ore 21, fest. h 18, via A. Solari 35, tel. 02.83.23.156, € 14,00).
Una coppia in crisi: lei (Mercedes Martini) ha una malattia cardiaca e le serve un trapianto, lui (Paolo Coletta) è un collezionista d’arte, che non tollera la sofferenza, il buon esito dell’operazione
aprirà nella donna nuovi interrogativi e la necessità di incontrare in India i familiari del donatore in un colloquio dagli esiti
imprevedibili. Cosa succede quando si dà un prezzo a ogni cosa? A un quadro, a un amore, a un cuore? (c.c.)
[11 novembre 2008]
ATTORI IN MOSTRA Il Teatro i apre la stagione tra le sculture di Pomodoro
Uno spettacolo da guardare come si guarda un’ opera esposta in un museo. Pensato e scritto per essere rappresentato nelle gallerie d’ arte: senza trucchi teatrali, senza effetti luce, senza separazione tra scena e pubblico. Con gli attori che, almeno all’ inizio, potrebbero essere tranquillamente scambiati per guide del museo che illustrano agli spettatori quadri, sculture e installazioni. Dopo il successo al Festival del Teatro di Napoli, dove è andato in scena al Madre tra le opere di Georg Baselitz e in decina di altre gallerie dalla città, England del drammaturgo inglese Tim Crouch arriva a Milano ospite da stasera di Teatro i che, per l’ occasione, si trasferisce alla Fondazione Pomodoro. Diretti da Carlo Cerciello (sua la regia di ‘Nzularchia, spettacolo rivelazione di un paio di stagioni fa), i due attori Paolo Coletta e Mercedes Martini sono pronti a impossessarsi dello spazio di via Solari dove attualmente sono in mostra le imponenti sculture di Arnaldo Pomodoro. «È uno spettacolo impegnativo – spiega il regista – prima di tutto perché ogni volta devi adeguarlo alle opere che ti trovi davanti in quel momento. A Milano, la scommessa è alta: la Fondazione Pomodoro è uno spazio molto bello, ma dispersivo, difficile da controllare: per questo abbiamo pensato a un massimo di 100 spettatori a replica: è uno spettacolo che ha bisogno di un rapporto ravvicinato tra attori, pubblico e opere. Ma non solo. Il testo è un gioco di scatole cinesi che procede per lampi e frammenti. Una specie di puzzle enigmatico che ruota intorno al mercato dell’ arte: che valore si dà a un’ opera? Quanto sono monetizzabili la vita e la morte esibite dall’ arte contemporanea?» Si comincia dunque come se si fosse visitatori di un galleria e vertiginosamente si migra dentro una storia: quella di una ricca e raffinata collezionista che, malata di cuore, si sottopone a un trapianto, scegliendo poi di incontrare la vedova del donatore. Il suo scopo è regalarle un’ opera dal valore inestimabile che valga quanto l’ organo che ha ricevuto. Operazione impossibile quanto paradossale, che in controluce svela il corto circuito di un meccanismo di transazioni commerciali che scambia i corpi con le opere. Il tutto raccontato nello stile graffiante e ironico di un autore che ama spiazzare: «è un testo di humor molto britannico – prosegue Cerciello – lontano dal gusto a cui siamo abituati. Per questo la nostra sfida è ancora più azzardata. Finora è andata bene, nel senso che oltre a ogni aspettativa lo spettacolo è piaciuto». Al pubblico, «che è la variabile più imprevedibile», ma anche ai galleristi e agli artisti coinvolti nell’ operazione. «In alcuni casi temevamo il peggio: England è una critica feroce alle logiche del mercato dell’ arte contemporanea, allo sperma in scatola e agli squali in formaldeide, ai criteri di attribuzione di valore che spesso escludono gli stessi artisti, ai musei che sembrano obitori. Finora è andata bene, speriamo che vada così anche qui a Milano». [La Repubblica — 12 novembre 2008, MILANO-SARA CHIAPPORI]
Il corto circuito tra arte e vita
Più che uno spettacolo, un gioco sofisticato di scambi: tra identità, luoghi e linguaggi, tra arte e vita, tra il dolore e la sua monetizzazione. England di Tim Crouch, drammaturgo inglese che ama spiazzare, in scena alla Fondazione Pomodoro con la regia di Carlo Cerciello, ha il segno di una riflessione spietata sulla contemporaneità, dove il mercato dell’ arte globale si fa metafora di un mondo che trasforma l’ esistenza in oggetto estetico. Seguendo gli indizi di una storia che si dipana come un enigma – dopo essersi sottoposta a un trapianto di cuore, la compagna di un collezionista londinese vola in India per incontrare la vedova del donatore e farle dono di un’ opera che compensi la sua perdita – gli spettatori precipitano dentro il paradosso di un corto circuito che vorrebbe stabilire equivalenze impossibili. Muovendosi tra le imponenti sculture di Arnaldo Pomodoro, che diventano esplicito riferimento drammaturgico (il testo è stato scritto per essere allestito in musei e gallerie), i due protagonisti, Paolo Coletta e Mercedes Martini, dominano con rigore una partitura multiforme che li obbliga al distacco mentre distribuiscono nello spazio immagini di folgorante ferocia. (sara chiappori)
[La Repubblica — 14 novembre 2008, MILANO]
England
DELTEATRO.IT — Renato Palazzi
MILANO – Fra tutti i nuovi esponenti dell’ultima ondata della drammaturgia britannica, l’attore-autore Tim Crouch è forse il più inquietante e misterioso: le vicende che rappresenta, sottilmente corrosive, volutamente disturbanti, corrono spesso sul filo di insondabili distorsioni della psiche, di oscure patologie della coscienza individuale o collettiva. La sua scrittura, apparentemente semplice, in realtà studiatissima, tende ad azzerare la struttura dei dialoghi tradizionali per approdare a delle impassibili costruzioni verbali, affidate alla libera invenzione del regista. I suoi testi si chiudono non di rado con un interrogativo, un dubbio, un enigma. Si veda ad esempio England, la gelida pièce allestita da Carlo Cerciello, che fu tra le proposte più interessanti del festival di Napoli: al di là della trama perfidamente spiazzante, il suo fascino risiede soprattutto nella raffinata tecnica compositiva del copione, che ha cadenze vagamente musicali, o svela – per altri aspetti – geometrie quasi scacchistiche. Fermo restando che i personaggi non comunicano mai direttamente fra loro, ma enunciano a turno impressioni o punti di vista, i fatti dapprima emergono sempre per accenni e allusioni, e poi si precisano attraverso anticipazioni, ritorni indietro, scarti laterali, iterazioni, scambi di ruoli.
La complessità dello schema serve a prendere qualche distanza da una storia che potrebbe risultare di per sé melodrammatica: nella prima parte emerge infatti il dualismo tra la malattia cardiaca che sta per uccidere la compagna di un mercante d’arte, e le reazioni di costui, per il quale la sofferenza può essere solo materia dei quadri. Nella seconda parte la donna, salvata da un trapianto, va in India per incontrare la vedova del donatore, convinta che il marito sia stato ucciso da trafficanti di organi: e qui esplode l’acre contrasto tra un Occidente ricco, nutrito di pregiudizi, e un mondo dove contano i valori della vita anziché le quotazioni dei pittori.
Su indicazione dell’autore, lo spettacolo viene presentato nelle gallerie d’arte contemporanea per accentuare la stridente contrapposizione tra l’asprezza degli avvenimenti e l’indifferente estraneità delle opere appese alle pareti: la freddezza espressiva, unita a una fosca ironia, è infatti l’aspetto principale di questa impeccabile partitura per due voci recitanti e una figura femminile addetta al suono. Il tutto, ottimamente interpretato da Mercedes Martini e Paolo Coletta, attrae lentamente con le sue suggestioni insondabili, poi alla fine colpisce duro, non tanto per le accuse dell’una quanto per l’incapacità dell’altra di ascoltare e di capire.
[renato palazzi]
England, di Tim Crouch, regia di Carlo Cerciello. Interpreti: Paolo Coletta e Mercedes Martini. Andato in scena alla Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano
14/11/08
Ritmo serrato e bravi attori «England» siamo noi
CORRIERE DELLA SERA — Magda Poli
Pochi tratti per disegnare la violenza di una società che pensa che con i soldi si possa comprare tutto, che si considera raffinata, con una stupefacente educazione dei sentimenti e del gusto pervasa com’ è da secoli di arte, di poesia. Pochi tratti per svelarne, invece, il volto bieco, razzista, senza etica e opportunista in dialoghi asciutti che si intrecciano a ritmo serrato in una pièce spiazzante e aspra che ha un incalzante andamento musicale. È l’ inquietante «England» dell’ inglese Tim Crouch portato in scena con bel rigore ideativo da Carlo Cerciello, ben recitato da Mercedes Martini e Paolo Coletta, ottimamente tradotto da Luca Scarlini. Lui è un ricco mercante d’ arte, lei si scopre gravemente malata di cuore. È necessario un trapianto. I soldi non mancano, un cuore si può anche comprare. Lei si recherà in India per «ringraziare» la vedova del «donatore» portandole in regalo un «pezzo» arte. Crouch indica le gallerie d’ arte contemporanea, – a Milano lo splendido spazio della Fondazione Pomodoro tra capolavori del grande artista – come luogo per le rappresentazioni con il devastante effetto di rendere ancor più insopportabile, in quei luoghi che dovrebbero affinare lo spirito ed espanderlo, la violenza e la volgarità di una società per la quale l’ arte non accresce le facoltà dell’ essere ma solo quelle del possedere. Fondazione Pomodoro fino a domenica.
— Magda Poli, 15.11.2008